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I bambini dimenticati


I bambini dimenticati

Mi aspetta il custode. In mano ha molte chiavi raccolte in un anello. Il manicomio da pochi mesi era chiuso, dopo che la legge 180 il 13 maggio ne aveva decretato la fine. [...]

L'uomo, senza troppe parole, sceglie una chiave dal folto del mazzo e apre un portone, poi altri giri in altre toppe, una porta dopo l'altra. Alla fine ci ritroviamo nell'atrio vuoto e desolato del piano terra […] nessuno sguardo oltre ai nostri a osservare. Entriamo in una grande sala, a destra lo scalone che porta al primo piano. È l'archivio. Dalle ampie finestre osservo la laguna nebbiosa, la chiesa che si affaccia sulla riva, gli alberi del parco. Al centro un tavolo circondato di scaffalature protette dalle vetrine. Contengono l'archivio vero e proprio: faldoni su faldoni di cartelle cliniche divise per anno.

Ho ricevuto il permesso di consultarle per motivi di studio. Devo ringraziare la mia tesi per questo privilegio. Ripenso al mio obiettivo: scoprire quanti bambini dimenticati in vita e in morte siano passati di lì, per farli uscire da quelle carte ammuffite e per leggere le loro storie. Voglio che se ne parli. Anche solo in sede di discussione di laurea. Meglio di niente. Voglio conoscerli e non dimenticarli. […] Perché di una cosa ero sicura: i corridoi che correvano labirintici fuori dalla stanza dove mi trovavo avevano visto altri bambini andare, venire, partire, patire e morire. Sempre invisibili, mischiati ai pazienti adulti.[…]

Avrei setacciato cento anni di vita dell' ospedale, dal 1872 (quando è stato aperto come manicomio femminile) al 1972. Avrei trovato conferma che fino ai primi anni del Novecento le malattie dei bambini non erano separate da quelle degli adulti e che solo dopo gli anni venti si sarebbe considerata la neuropsichiatria infantile come disciplina distinta e autonoma. Ma, nonostante la conseguente nascita degli istituti Medico-Psico-Pedagogici, i bambini in manicomio ci sarebbero restati. E io ne avrei trovati un bel po'. Bambini disturbanti, menomati, epilettici, handicappati, indigenti; e quindi rinchiusi. Mai ripagati dei diritti fondamentali di cui erano stati privati. Le cartelle cliniche che rintraccio, parlano anche della famiglia e dell'ambiente da cui questi bambini sono stati espulsi, a volte per qualche mese, a volte per anni, a volte per sempre.

Apro le vetrine e afferro i primi faldoni. Seleziono quelli che mi interessano. […] Mi si  svelano squarci di esistenze a cominciare dalle misurazioni dell'Esame Antropologico: sviluppo scheletrico, statura, apertura delle braccia, stato di nutrizione, peso del corpo, tessuto cutaneo, cranio. Numeri, ma almeno solo numeri che non possono essere sprezzanti come le tante descrizioni dei medici compilatori, con le loro fredde e giudicanti note. I termini e gli aggettivi con cui li descrivevano erano spesso davvero impietosi: "indocile", "disobbediente", "ozioso", "irritabile", "cattivo", "permaloso", "tendente al furto", "insofferente alla  disciplina". Ma come si poteva imputare a un bambino, magari epilettico, la colpa d'essere "irritabile", "indocile ", "disobbediente"? A un bambino improvvisamente privato della famiglia e rinchiuso in manicomio insieme a malati adulti?

Eccoli, in quelle cartelle, i piccoli più deboli tra i deboli. Mi guardano dalle foto formato tessera, diligentemente incollate alle cartelle. Piccole facce in bianco e nero. Quasi tutte hanno ben stampate, giusto a margine, le loro radici povere e miserabili. Piccole vite spolpate, rachitiche per via del "vitto insufficiente" e spesso colpite da "frenosi pellagrosa” che vorrebbe dire alterazione psichica prodotta da fame. Impazziti dalla fame.

A proposito di pazzia: il termine veniva usato solo al momento della dimissione, "per non riconosciuta pazzia". Per il resto, sulle generiche diagnosi che giustificano il ricovero, la "pazzia" è la grande assente. A San Clemente da minorenni si entrava soprattutto per epilessia, imbecillità, idiozia, cerebropatia. I comportamenti anormali che i bambini avevano, chiaramente causati da queste patologie, venivano esasperati come se il medico cercasse in tutti i modi di costruirsi un alibi che giustificasse l'internamento. L'immediato, "benefico" effetto era garantito: allontanare ed escludere quelle diversità disturbanti chiudendole in manicomio e, spesso, buttando la chiave.

Nelle cartelle trovo anche i certificati responsabili delle reclusioni: sono quelli redatti dai medici dell'ospedale generale, "sezione infantile" da dove i miei nuovi amici spesso provengono. Trovo, frequente, l'espressione "alienazione mentale" per giustificare il trasferimento. Ma tra le motivazioni leggo: "turpiloquio", "tendenza a denudarsi", "masturbazione". Il lutto porta dritto a giudizi di "imbecillità morale", "frenastenia degenerata", "idiozia morale". Diagnosi che, guarda caso, sembrano colpire più le femmine che i maschi. Come se la bestemmia, il turpiloquio, la masturbazione fossero segni discriminanti di "pazzia" solo se praticati da bambine. A proposito, avrei trovato più bambine ricoverate che bambini.

Alla voce "Notizie mediche", leggo di madri che partoriscono quattordici figli, dieci dei quali morti in tenera età per imprecisate malattie. Di genitori che dormono con gli otto figli in un'unica stanza. Tra i piccoli internati chi aveva vissuto in tali promiscuità viene classificato come "osceno", "scandaloso" e "sconcio" perché dimostra di essere a conoscenza delle pratiche sessuali. Leggo di padri in silenzio davanti alle domande dell'assistente sociale, padri incapaci di agire, troppo vergognosi della loro povertà. Di famiglie che non sanno come far fronte a un figlio menomato, ritardato, malato. E di una legge che autorizza a internare chi risulta impossibile da sorvegliare e da assistere; una legge che sembra essere per loro l'unico strumento a disposizione.

                                                                   Alberta Basaglia, Le nuvole di Picasso, Milano, 2014