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L'inizio e la fine [Incominciare - NL. 4]


L'inizio e la fine

Incominciare.
Da dove? Come? Perché iniziare proprio da lì e non da un’altra parte?

L’inizio e la fine
 
Incominciare.
Da dove? Come? Perché iniziare proprio da lì e non da un’altra parte?
E poi: non si comincia sempre dalla fine, a conclusione cioè di un percorso mentale, emotivo, cognitivo, stilistico che si è iniziato molto prima: chissà quando? E, a proposito della fine: decidere quale debba essere l’ultima parola non è problema meno arduo che stabilire la prima.
Abbiamo allora provato a mettere insieme incipit e finali di narrazioni, romanzi, saggi e altri scritti (per grandi e piccini): una sorta di testa/coda dagli esiti non sempre scontati.
Chiude la piccola antologia un racconto (il più breve mai scritto?) in cui inizio e fine coincidono.
 
 
Genesi, VI-V secolo a.C.
 
In principio Dio creò il cielo e la terra.
 Ora la terra era informe e deserta e le tenebre ricoprivano l'abisso e lo spirito di Dio aleggiava sulle acque. 
Dio disse: «Sia la luce!». E la luce fu. 
Dio vide che la luce era cosa buona e separò la luce dalle tenebre
e chiamò la luce giorno e le tenebre notte. E fu sera e fu mattina: primo giorno.
 Dio disse: «Sia il firmamento in mezzo alle acque per separare le acque dalle acque».
 Dio fece il firmamento e separò le acque, che sono sotto il firmamento, dalle acque, che son sopra il firmamento. E così avvenne. 
Dio chiamò il firmamento cielo. E fu sera e fu mattina: secondo giorno. 
Dio disse: «Le acque che sono sotto il cielo, si raccolgano in un solo luogo e appaia l'asciutto». E così avvenne.
 Dio chiamò l'asciutto terra e la massa delle acque mare. E Dio vide che era cosa buona.

(…)
Ora Giuseppe con la famiglia di suo padre abitò in Egitto; Giuseppe visse centodieci anni.
 Così Giuseppe vide i figli di Efraim fino alla terza generazione e anche i figli di Machir, figlio di Manasse, nacquero sulle ginocchia di Giuseppe.
 Poi Giuseppe disse ai fratelli: «Io sto per morire, ma Dio verrà certo a visitarvi e vi farà uscire da questo paese verso il paese ch'egli ha promesso con giuramento ad Abramo, a Isacco e a Giacobbe».
 Giuseppe fece giurare ai figli di Israele così: «Dio verrà certo a visitarvi e allora voi porterete via di qui le mie ossa».
 Poi Giuseppe morì all'età di centodieci anni; lo imbalsamarono e fu posto in un sarcofago in Egitto.
 
 
Vangelo secondo Giovanni, 90-110 d.C.
 
In principio era il Verbo, il Verbo era presso Dio e il Verbo era Dio. Egli era in principio presso Dio: tutto è stato fatto per mezzo di lui, e senza di lui niente è stato fatto di tutto ciò che esiste.
In lui era la vita e la vita era la luce degli uomini; la luce splende nelle tenebre, ma le tenebre non l'hanno accolta.
(…)
Questo è il discepolo che rende testimonianza su questi fatti e li ha scritti; e noi sappiamo che la sua testimonianza è vera.
Vi sono ancora molte altre cose compiute da Gesù, che, se fossero scritte una per una, penso che il mondo stesso non basterebbe a contenere i libri che si dovrebbero scrivere.
 
 
Il Corano, VII d.C.
 
1. In nome di Allah, il Compassionevole, il Misericordioso
2. La lode [appartiene] ad Allah, Signore dei mondi
3. il Compassionevole, il Misericordioso,
4. Re del Giorno del Giudizio.
5. Te noi adoriamo e a Te chiediamo aiuto.
6. Guidaci sulla retta via,
7. la via di coloro che hai colmato di grazia, non di coloro che [sono incorsi] nella [Tua] ira, né degli sviati.
(…)
1. Di': "Mi rifugio nel Signore degli uomini,
2. Re degli uomini,
3. Dio degli uomini,
4. contro il male del sussurratore furtivo,
5. che soffia il male nei cuori degli uomini,
6. che [venga] dai dèmoni o dagli uomini".
 
 

 
Carlo Lorenzini, Le avventure di Pinocchio. Storia di un burattino, 1881
 
 C’era una volta...
— Un re! — diranno subito i miei piccoli lettori.
— No, ragazzi, avete sbagliato. C’era una volta un pezzo di legno.
Non era un legno di lusso, ma un semplice pezzo da catasta, di quelli che d’inverno si mettono nelle stufe e nei caminetti per accendere il fuoco e per riscaldare le stanze.
Non so come andasse, ma il fatto gli è che un bel giorno questo pezzo di legno capitò nella bottega di un vecchio falegname, il quale aveva nome Mastr’Antonio, se non che tutti lo chiamavano maestro Ciliegia, per via della punta del suo naso, che era sempre lustra e paonazza, come una ciliegia matura.
Appena maestro Ciliegia ebbe visto quel pezzo di legno, si rallegrò tutto; e dandosi una fregatina di mani per la contentezza, borbottò a mezza voce:
— Questo legno è capitato a tempo; voglio servirmene per fare una gamba di tavolino. —  
Detto fatto, prese subito l’ascia arrotata per cominciare a levargli la scorza e a digrossarlo; ma quando fu lí per lasciare andare la prima asciata, rimase col braccio sospeso in aria, perché sentí una vocina sottile sottile, che disse raccomandandosi:
— Non mi picchiar tanto forte! —
Figuratevi come rimase quel buon vecchio di maestro Ciliegia!  
(…)
In mezzo a tutte queste meraviglie, che si succedevano le une alle altre, Pinocchio non sapeva piú nemmeno lui se era desto davvero o se sognava sempre a occhi aperti.
— E il mio babbo dov’è? — gridò tutt’a un tratto: ed entrato nella stanza accanto trovò il vecchio Geppetto sano, arzillo e di buon umore, come una volta, il quale, avendo ripreso subito la sua professione d’intagliatore, stava appunto disegnando una bellissima cornice ricca di fogliami, di fiori e di testine di diversi animali.
— Levatemi una curiosità, babbino: ma come si spiega tutto questo cambiamento improvviso? — gli domandò Pinocchio saltandogli al collo e coprendolo di baci.
— Questo improvviso cambiamento in casa nostra è tutto merito tuo —  disse Geppetto.
— Perché merito mio?...
— Perché quando i ragazzi, di cattivi diventano buoni, hanno la virtú di far prendere un aspetto nuovo e sorridente anche all’interno delle loro famiglie.
— E il vecchio Pinocchio di legno dove si sarà nascosto?
— Eccolo là — rispose Geppetto: e gli accennò un grosso burattino appoggiato a una seggiola, col capo girato su una parte, con le braccia ciondoloni e con le gambe incrocicchiate e ripiegate a mezzo, da parere un miracolo se stava ritto.
Pinocchio si voltò a guardarlo; e dopo che l’ebbe guardato un poco, disse dentro di sé con grandissima compiacenza:
 -Com’ero buffo, quand’ero un burattino! e come ora son contento di esser diventato un ragazzino perbene!... —
 
 
Michael Ende,  La storia infinita, 1979
 
Antiquariato
Titolare Carlo Corrado Coriandoli
Questa scritta stava sulla porta a vetri di una botteguccia, ma naturalmente così la si vedeva solo guardando attraverso il vetro dall'interno del locale in penombra.
Fuori era una fredda, grigia giornata novembrina e pioveva a catinelle. Le gocce di pioggia correvano giù lungo il vetro, sopra gli svolazzi delle lettere. Tutto ciò che si riusciva a vedere attraverso il cristallo era un muro macchiato di pioggia dall'altro lato della strada.
D'improvviso la porta venne spalancata con tanta violenza che un piccolo grappolo di campanellini d'ottone sospeso sul battente cominciò a tintinnare tutto eccitato e ci volle un bel po' prima che si rimettesse tranquillo. Causa di quello scompiglio era un ragazzino piccolo e grassoccio, di forse dieci, undici anni. I capelli scuri gli ricadevano bagnati sul viso, il cappotto era molle di pioggia e tutto gocciolante; sul fianco, pendente da una cinghia a tracolla, portava una cartella di scuola.
Era piuttosto pallido e senza fiato ma, in contrasto con l'affanno che lo aveva condotto fin lì, ora se ne stava sulla porta, immobile, come se avesse messo radici.
Davanti a lui si apriva una stanza lunga e stretta che si perdeva verso il fondo nella penombra. Alle pareti c'erano scaffali che arrivavano fino al soffitto, zeppi di libri d'ogni formato e dimensione. Sul pavimento stavano accatastati mucchi di volumoni « in-folio », su alcune tavole erano ammassate montagne di libri più piccoli, rilegati in pelle e dal brillante taglio dorato. Da dietro un muro di libri, alto quanto un uomo, che si levava all'estremità opposta della stanza, veniva il bagliore di una lampada. In quella luce si levava di tanto in tanto un anello di fumo che s'ingrandiva salendo per poi andare a dissolversi in alto, nel buio. Pareva uno di quei segnali che usano gli indiani per mandarsi notizie da una montagna all'altra. Evidentemente laggiù c'era qualcuno e in effetti il ragazzo udì ora una voce piuttosto brusca che dietro la parete di libri diceva:
" Si meravigli dentro o fuori, ma chiuda la porta. C'è corrente ".
(…)
« Ogni vera storia è una Storia infinita. » Lasciò scorrere lo sguardo sui molti libri che stavano alle pareti, su, fino al soffitto, poi con il bocchino della pipa li indicò e continuò:
« Ci sono una quantità di porte che conducono in Fantàsia, ragazzo mio. Di libri magici come quello ce n'è più d'uno. Molta gente non se ne accorge neppure. Dipende appunto da chi prende in mano un libro simile ».
« Allora vuoi dire che la Storia infinita è diversa per ciascunno? »
« È proprio quello che intendo », replicò il signor Coriandoli, « inoltre non ci sono solo libri, ma anche altre possibilità per andare in Fantàsia e ritornarne. Te ne accorgerai. »
« Dice? » domandò Bastiano con occhi pieni di speranza. « Ma in tal caso dovrei incontrare di nuovo Fiordiluna, e invece ciascuno non può vederla che un'unica volta. »
Il signor Coriandoli si chinò in avanti e abbassò la voce.
« Lasciati dire una cosa da un vecchio ed esperto viaggiatore di Fantàsia, ragazzo mio! È un segreto che nessuno in Fantàsia può sapere. Ma se tu ci rifletti bene, capirai anche perché è così. Da Fiordiluna non ci puoi andare una seconda volta, questo è vero, fintanto che è Fiordiluna. Ma se tu sei in grado di darle un altro nome, la puoi rivedere. E per quanto spesso ti possa accadere, ogni volta sarà la prima e l'unica. »
Sulla faccia da bulldog del signor Coriandoli passò per un istante un bagliore di calda tenerezza che lo fece sembrare giovane e persino quasi bello.
« Grazie, signor Coriandoli! » disse Bastiano.
« Sono io che ti devo ringraziare, figliolo », rispose il signor Coriandoli. « Sarebbe bello se di tanto in tanto tu ti facessi vedere qui da me, perché ci si possa scambiare le nostre esperienze. Non c'è mica molta gente con cui si possa parlare di queste cose. »
Tese la mano a Bastiano. « D'accordo? »
« Volentieri », rispose Bastiano, e gliela strinse. « Adesso devo andare. Mio padre mi aspetta. Ma tornerò presto a trovarla. »
Il signor Coriandoli lo accompagnò alla porta.
Quando furono lì, attraverso la lastra di vetro con la scritta ornata di svolazzi, Bastiano vide suo padre che lo aspettava sul lato opposto della strada. Aveva il volto raggiante.
Bastiano spalancò la porta, così che il grappolo di campanellini di ottone cominciò a tintinnare furiosamente, e corse verso quel volto raggiante.
Il signor Coriandoli richiuse quietamente la porta e rimase a guardare quei due che si allontanavano.
« Bastiano Baldassarre Bucci », borbottò, « se non mi sbaglio, tu sei di quelli che mostreranno ancora a molti la strada per Fantàsia, affinché ne ritornino con l'Acqua della Vita! »
 
Il signor Coriandoli non si sbagliava.
Ma questa è un'altra storia, e si dovrà raccontare un'altra volta.
 
 
Bianca Pitzorno, Ascolta il mio cuore, 1991
 
Dove facciamo la conoscenza di Prisca, una delle tre eroine di questa storia. E della sua tartaruga.
 
Quando era piccola, Prisca si era sempre rifiutata di imparare a nuotare con la testa sott'acqua, come pretendevano suo padre e suo nonno. Era convinta che il mare, attraverso i buchi delle orecchie, potesse entrarle nel cervello. E un cervello annacquato, si sa, funziona male. Forse che il nonno, quando lei non capiva al volo qualcosa, non le diceva spazientito:—Ma è andato in brodo il cervello?
Per lo stesso motivo Prisca non voleva mai tuffarsi dalla barca o dal molo, come facevano suo fratello Gabriele e gli altri bambini. E, naturalmente, c'era sempre qualche dispettoso Me mentre lei nuotava Tranquilla con il mento sollevato, le arrivava zitto zitto alle spalle, le metteva una mano sulla testa e la cacciava sotto.
Quanti pianti si era fatta! Di paura, ma soprattutto di rabbia impotente. Tanto piú che quando andava a protestare dalla madre sotto l'ombrellone, quella, invece di difenderla o consolarla, la sgridava: —Non sai stare agli scherzi. Sei troppo permalosa In fondo cosa ti hanno fatto? Finirai per diventare lo zimbello della spiaggia.
Poi era cresciuta e aveva capito che l'acqua non può assolutamente entrare nel cervello. Né attraverso le orecchie, né attraverso gli altri buchi che abbiamo in faccia. Glielo aveva spiegato, mostrandole anche un disegno scientifico su un libro di medicina, il dottor Maffei, zio della sua amica Elisa. — Dalla bocca e dal naso l'acqua potrebbe entrarti semmai nei polmoni, oppure nello stomaco—le aveva spiegato—ma nel cervello assolutamente no.—Era un pensiero rassicurante.
Perciò adesso che aveva nove anni Prisca si tuffava con la bocca serrata, stringendosi il naso con due dita, e aveva imparato nuotare con la testa mezza sotto. Sapeva fare anche "il morto" in modo perfetto, completamente immersa: non solo le orecchie, ma persino gli occhi, aperti, anche se bruciavano un po'. Fuori restavano solo le narici, un millimetro appena sopra il pelo dell'acqua.
Questo l'aveva imparato da Dinosaura, la quale, essendo una tartaruga di terra (nome scientifico: Testudo graeca), non aveva le branchie ma i polmoni, e quindi doveva per forza respirare aria. Era una tartaruga di terra, ma quando Prisca la portava alla spiaggia e la metteva sotto l'ombrellone, Dinosaura la seguiva in acqua e se ne stava a galleggiare vicino alla riva, col guscio giallo e marrone totalmente immerso e solo le narici fuori, muovendo impercettibilmente le zampe. Naturalmente non faceva "il morto". È noto a tutti che le tartarughe detestano stare a pancia all'aria e che se capita di incontrarne una in quella posizione bisogna farle subito il favore di ribaltarla in modo che possa camminare.
Una volta che Dinosaura faceva il bagno a quel modo, la corrente l'aveva portata al largo, lontanissima, fino a farla sparire. Prisca aveva pianto e pianto, perché pensava di averla perduta per sempre.
 (…)
Conservò l'agenda nella sacca da spiaggia, si mise ai piedi le pinne ed entrò in acqua. Dinosaura, che stava mangiando un ciuffo d'erba all'ombra dell'automobile, smise subito e si avviò per raggiungerla, arrancando sul terreno irregolare. Quell'anno Ines aveva avuto un'idea ancora piú brillante, e invece di metterle una targa di cerotto, le aveva scritto l'indirizzo di casa direttamente sul guscio con lo smalto delle unghie. —Se non fa male a noi cristiani, vuoi che faccia male a una bestia cosí dura?
La scritta, d'un bel rosso brillante, si vedeva da lontano.
Mentre la tartaruga stava per raggiungere la sabbia Filippo, che adesso aveva due anni e camminava da solo con gran velocità, le tagliò la strada, bloccandola col piedino nudo.—Guga, Guga!—La prese, la sollevò all'altezza del viso e sporgendo le labbra, cercò di baciarla sul muso. Dinosaura, che aveva i suoi buoni motivi per non fidarsi di lui, si ritirò completamènte dentro il guscio. Allora il bambino, trotterellando, la portò verso la riva. Ma invece di farle fare un bel tuffo in acqua, la poggiò sulla sabbia umida e ci si sedette sopra.
Prisca faceva il morto nell'acqua limpida come cristallo e strizzava gli occhi per guardare il cielo, diviso esattamente a metà dalla striscia bianca di un aeroplano.
 
 
 

 

 
Alessandro Manzoni, I promessi sposi, 1827
 
Quel ramo del lago di Como, che volge a mezzogiorno, tra due catene non interrotte di monti, tutto a seni e a golfi, a seconda dello sporgere e del rientrare di quelli, vien, quasi a un tratto, a ristringersi, e a prender corso e figura di fiume, tra un promontorio a destra, e un'ampia costiera dall'altra parte; e il ponte, che ivi congiunge le due rive, par che renda ancor più sensibile all'occhio questa trasformazione, e segni il punto in cui il lago cessa, e l'Adda rincomincia, per ripigliar poi nome di lago dove le rive, allontanandosi di nuovo, lascian l'acqua distendersi e rallentarsi in nuovi golfi e in nuovi seni. La costiera, formata dal deposito di tre grossi torrenti, scende appoggiata a due monti contigui, l'uno detto di san Martino, l'altro, con voce lombarda, il Resegone, dai molti suoi cocuzzoli in fila, che in vero lo fanno somigliare a una sega: talché non è chi, al primo vederlo, purché sia di fronte, come per esempio di su le mura di Milano che guardano a settentrione, non lo discerna tosto, a un tal contrassegno, in quella lunga e vasta giogaia, dagli altri monti di nome più oscuro e di forma più comune.
(…)
Renzo, alla prima, rimase impicciato. Dopo un lungo dibattere e cercare insieme, conclusero che i guai vengono bensì spesso, perché ci si è dato cagione; ma che la condotta più cauta e più innocente non basta a tenerli lontani; e che quando vengono, o per colpa o senza colpa, la fiducia in Dio li raddolcisce, e li rende utili per una vita migliore. Questa conclusione, benché trovata da povera gente, c'è parsa così giusta, che abbiam pensato di metterla qui, come il sugo di tutta la storia.
La quale, se non v'è dispiaciuta affatto, vogliatene bene a chi l'ha scritta, e anche un pochino a chi l'ha raccomodata. Ma se in vece fossimo riusciti ad annoiarvi, credete che non s'è fatto apposta.
 
 
Umberto Eco, Il nome della rosa, 1980
 
In principio era il Verbo e il Verbo era presso Dio, e il Verbo era Dio. Questo era in principio presso Dio e compito del monaco fedele sarebbe ripetere ogni giorno con salmodiante umiltà l'unico immodificabile evento di cui si possa asserire l'incontrovertibile verità. Ma videmus nunc per speculum et in aenigmate e la verità, prima che faccia a faccia, si manifesta a tratti (ahi, quanto illeggibili) nell'errore del mondo, così che dobbiamo compitarne i fedeli segnacoli, anche là dove ci appaiono oscuri e quasi intessuti di una volontà del tutto intesa al male.
Giunto al finire della mia vita di peccatore, mentre canuto senesco come il mondo, nell'attesa di perdermi nell'abisso senza fondo della divinità silenziosa e deserta, partecipando della luce inconversevole delle intelligenze angeliche, trattenuto ormai col mio corpo greve e malato in questa cella del caro monastero di Melk, mi accingo a lasciare su questo vello testimonianza degli eventi mirabili e tremendi a cui in gioventù mi accadde di assistere, ripetendo verbatim quanto vidi e udii, senza azzardarmi a trarne un disegno, come a lasciare a coloro che verranno (se l'Anticristo non li precederà) segni di segni, perché su di essi si eserciti la preghiera della decifrazione.
(…)
Fa freddo nello scriptorium, il pollice mi duole. Lascio questa scrittura, non so per chi, non so più intorno a che cosa: stat rosa pristina in nomine, nomina nuda tenemus”.
 
 
Charles Schulz, Peanuts, dal 2 ottobre 1950 al 13 febbraio 2000
 
 
 
Cari amici,
ho avuto la fortuna di disegnare Charlie Brown e i suoi amici per quasi cinquant’anni. È stata la realizzazione del sogno che avevo fin da bambino. Purtroppo, però, ora non sono più in grado di mantenere il ritmo di lavoro richiesto da una striscia quotidiana. La mia famiglia non desidera che i Peanuts siano disegnati da qualcun altro, quindi annuncio il mio ritiro dall’attività.
Sono grato per la lealtà dei miei collaboratori e per la meravigliosa amicizia e l’affetto espressi dai lettori della mia “striscia” in tutti questi anni. Charlie Brown, Snoopy, Linus, Lucy… non potrò mai dimenticarli…
Charles Schulz
 
 
 
 
Tucidide, Guerra del Peloponneso, V  a.C.
 
Tucidide d'Atene descrisse la guerra tra Peloponnesi e Ateniesi, come combatterono fra loro. Mise subito mano alla stesura dell'opera, dallo scoppio della guerra, che prevedeva sarebbe stata grave, anzi la più degna di memoria tra le precedenti. Lo deduceva dal fatto che i due popoli vi si apprestavano all'epoca della loro massima potenza e con una preparazione completa osservava inoltre il resto delle genti greche schierarsi con gli uni o con gli altri, chi immediatamente, chi invece meditando di farlo. Fu senza dubbio questo l'evento che sconvolse più a fondo la Grecia e alcuni paesi barbari: si potrebbe dire addirittura che i suoi effetti si estesero alla maggior parte degli uomini. Infatti, sugli avvenimenti che precedettero il conflitto e su quelli ancor più remoti era impossibile raccogliere notizie sicure e chiare, per il troppo distacco di tempo; ma sulla base dei documenti, cui l'indagine più approfondita mi consente di prestar fede, ritengo che non se ne siano verificati di considerevoli, né sotto il profilo militare, né per altri rispetti.
(…)
Tissaferne, indovinando anche in questo gesto lo stile dei Peloponnesi, a lui ben noto dagli episodi di Mileto e di Cnido (dalle cui rocche erano già pure stati espulsi i suoi presidi) ritenne di essersi ormai compromesso irrimediabilmente agli occhi degli alleati: e stette all'erta per schivare qualche colpo peggiore. Del resto, andava in collera se correva con il pensiero a Farnabazo che, tratti dalla sua i Peloponnesi da più recente data e con spese più contenute, ora si avvantaggiava meglio di lui nel contrasto con gli Ateniesi. Così decise di mettersi in cammino per incontrare i Peloponnesi sulle rive dell'Ellesponto: teneva in serbo le sue brave rimostranze per gli avvenimenti di Andro, e vari argomenti con cui scolparsi nel modo più dignitoso dalle molte e pesanti riserve che ombreggiavano la sua condotta, per l'affare della flotta fenicia, e per altro. Giunto anzitutto ad Efeso sacrificò alla dea Artemide. Alla fine dell'inverno successivo a quest'estate, sarebbe spirato con esso il ventunesimo anno di guerra.
 
 
Marc Bloch, Apologia della storia o mestiere di storico, 1949
 
«Papà, spiegami a che serve la storia». Cosi, pochi anni or sono, un ragazzo che mi è molto vicino, interrogava suo padre, uno storico. Vorrei poter dire che questo libro rappresenta la mia risposta, perché non credo ci sia lode migliore, per uno scrittore, che di saper parlare, con il medesimo tono, ai dotti e agli scolari. Ma una semplicità tanto elevata è privilegio di alcuni rari eletti. Tuttavia la domanda di quel fanciullo, di cui sul momento non riuscii gran che bene a soddisfare la sete di sapere, la conserverei volentieri qui, come epigrafe. Senza dubbio, alcuni ne giudicheranno ingenua la formulazione; a me pare, invece, del tutto pertinente. Il problema ch'essa pone, con la sconcertante dirittura di quell'età inesorabile, è, né più né meno, quello della legittimità della storia.
(…)
 Poi, una volta fornita la prova - che non si ha il diritto di ritenere impossibile per partito preso -, restava ancora da domandarsi, spingendo più a fondo l'analisi, perché, tra tutti gli atteggiamenti psichici possibili, proprio quelli si siano imposti al gruppo. Poiché infatti una reazione dell'intelligenza o della sensibilità non si produce mai da sé, essa esige a sua volta che, se si verifica, ci sisforzi di scoprirne le ragioni. Per dirla in una parola, le cause in storia non più che altrove, non si postulano. Si cercano ...
 
 
Eric J. Hobsbawm Il Secolo breve.1914-1991: l’era dei grandi cataclismi, 1995
 
Nessuno può scrivere la storia del ventesimo secolo allo stesso modo in cui scriverebbe la storia di qualunque altra epoca, se non altro perché non si può raccontare l'età della propria vita allo stesso modo in cui si può (e si deve) scrivere la storia di periodi conosciuti solo dall'esterno, di seconda o di terza mano, attraverso le fonti dell'epoca o le opere degli storici successivi. L'arco della mia vita coincide quasi interamente con il periodo di cui tratta questo libro e per la maggior parte di essa, dalla prima adolescenza fino a oggi, sono stato consapevole degli avvenimenti pubblici, vale a dire ho accumulato opinioni e pregiudizi che derivano dalla mia condizione di contemporaneo più che da quella di studioso.
(…)
Non sappiamo dove stiamo andando. Sappiamo solo che la storia ci ha portato a questo punto e - se i lettori condividono l'argomentazione di questo.libro sappiamo anche perché. Comuque, una cosa è chiara. Se I'umanità deve avere un futuro nel quale riconoscersi, non potrà averlo prolungando il passato o il presente. Se cerchiamo di costruire il terzo millennio su questa base, falliremo. E il prezzo del fallimento, vale a dire l'alternativa a una società mutata, è il buio.
 
 
   
 
 
Augusto Monterroso, Il dinosauro, 1969
 
Quando si risvegliò il dinosauro stava ancora lì.